Il confine, ecco il macro tema della ricognizione urbana di Gorizia. Come poteva essere altrimenti? L’identità di questa città, nell’ultimo secolo, è legata indissolubilmente al disegno di confini arbitrari per dividere stati, culture e ideologie. Noi andremo a cercare le tracce del confine che è stato tracciato dagli Alleati dopo la Seconda Guerra Mondiale per dividere la Yugoslavia (comunista) dall’Italia (capitalista).
Scelgo il mio esercizio: la città dei segni. Voglio lavorare sul visivo, sui simboli che ormai riempiono quasi completamente il nostro campo visivo quando siamo in città e che ci costringono ad un continuo lavoro di decodifica e di comprensione. Come dice la definizione dell’esercizio, la città è (o è diventata) “un set codificato di istruzioni e un ambiente comunicativo ridondante che richiede interpretazione e selezione”.
Iniziamo a camminare, sotto un sole ardente. Abbiamo una “guida” che ci porta alla frontiera e ce la mostra. Niente muri stile Berlino, poche strisce di vernice per terra, nessun confine naturale, nessun segno evidente di separazione (se non la ferrovia che passa lì affianco), ogni tanto si vede un muretto con una rete metallica sopra. Il confine non si vede, non si manifesta chiaramente, mostra solo delle piccole tracce.
La guida ci spiega che per seguire il confine dobbiamo seguire i cippi. I cippi sono dei parallelepipedi di pietra alti circa trenta centimetri posti ad una distanza regolare. La loro grammatica è semplice: la forma sempre uguale (ci sono varianti molto più grandi per segnare i varchi di accesso da uno stato all’altro), un numero che indica il chilometro e un secondo numero, più piccolo, che identifica ogni singolo cippo. In cima ad ognuno è incisa una linea, a volte dritta, a volte spezzata in due a formare un angolo: indica la direzione in cui prosegue il confine, così che sia più semplice seguirlo.
Continuiamo a camminare sotto il sole e ogni tanto incontriamo un varco, un punto in cui il confine si apre per far passare persone e macchine. I varchi sono caratterizzati da grandi cartelli stradali che indicano in quale stato e in quale città si sta entrando. Poi c’è la Piazza, uno spazio diviso in due che negli anni è diventato il simbolo di questa città spezzata ma anche il luogo dove si celebra la riunificazione: le targhe commemorative, le foto di Prodi e del Primo Ministro sloveno che si stringono la mano. C’è qualcosa di strano però: gli italiani chiamano questo luogo Piazza della Transalpina e gli sloveni Tgv Europe (Piazza Europa). Due nomi per un solo spazio: è questo il confine?
Io fotografo tutto da una parte e dall’altra del confine: quello che viene scritto sui muri, le targhe commemorative, ogni segno lasciato dall’uomo. Mi lascio trasportare dalla scoperta, senza pensare troppo a quello che sto facendo: raccolgo, ma non provo a mettere in connessione i dati.
Solo il giorno dopo, durante la seconda ricognizione, ho una sorta di rivelazione: i due lati del confine sono identici. I segni si ripetono e si presentano nella stessa maniera, l’unica cosa che cambia è la lingua. Segni uguali ma diversi: la bandiera dello stato che affianca quella dell’Unione Europea, i cartelli posti sui punti di transito del confine che avvisano i viaggiatori che stanno cambiando stato, o le indicazioni sui limiti di velocità. Tutta la rappresentazione del confine (e del transito) segue le stesse regole da una parte e dall’altra. Non solo, la simbologia e i riferimenti sono identici su entrambi i lati del confine: che si tratti di messaggi istituzionali (le targhette dei numeri civici), di comunicazioni di privati cittadini (gli avvisi “attenti al cane”) o di espressioni delle subculture (ACAB scritto sui muri) tutto è facilmente comprensibile anche se non si conosce la lingua. C’è una grammatica dei simboli comune a tutta Europa?